mercoledì 14 dicembre 2011

Quanto impariamo dagli altri, quanto saremmo e potremmo imparare dagli altri, come se fossero esempi di carne e anima, grondanti di un passato che non smette di pulsare; dal loro silenzio, dalle loro parole, dalla loro gioia e dal loro dolore, noi riusciamo a capire e a dare una forma a tutto quello che si è adagiato, strato dopo strato, dentro di noi. Portatori ignari di vita osserviamo il divenire, distratti. Preoccupati più a dire che a fare, perchè nelle parole troviamo la misura di quello che possiamo sembrare. Di una apparenza che pare capace di una plausbile dignità. Basterebbe colare a picco, e senza fiato, quasi a non poterne più, inciampando in quello che manca, per poi riemergere. E smettere di cercarlo, mozzandoci quello che non ci appartiene, come rami aridi, o solo di un altro albero, i cui frutti non possono essere nostri, nè appartenerci. E' l'estraneità che ci rende quasi crudeli, la paura dell'ignoto o solo di una diversità che forse è l'unica cosa che ci rende simili ed assomigliare il più possibile ai nostri sogni. E spesso prende sembianze quasi note, si maschera di quotidianeità. Vivo una strana mancanza di parole. Mi piace pensare che gli altri riescano a capire ciò che io sento come se tutti ci muovessimo immobili in uno strano silenzio fermentato, dentro strati di silenzio, come tra lenzuola stese al sole e nel vento. Ostacoli con poco attrito. Perchè la comprensione vera è fatta di questo, di un silenzio gravido che si fa pane ed abbraccio. Ho smesso di sognare che ci sia una pozione magica capace di cancellare i segni che ho su di me. E li osservo al contrario. Mi piace pensare che, per caso, qualcuno sappia infilare la sua mano dentro, nella palude che mi abita, senza perdersi nella sabbia e nel fango, senza rovistare. Cercare non è chiedere nè devastare quello che gli altri sono, ma osservarli, con tutta l'astensione di cui siamo capaci, accarezzando quei segni, senza cancellarli perchè diventino un piccolo sentiero.
Mi chiamo nuvola interrotta e non so più piangere.
Ma a volte sono Paola.
Paola per caso.
E' il cielo la casa della pioggia.
Il tetto umido o solo la coperta della nostra vita.
E a volte lo chiamiamo amore.
Basterebbe chiamarlo leggerezza.
Silenzio, io voglio silenzio. Non uno qualsiasi. Un silenzio diverso. E non voglio sentire nè il troppo nè il giusto. Non voglio un silenzio tana. Ma voglio smettere di giocare tra anima e respiri. Artifici e fiammelle. La voglia di farci sbattere il cuore in petto e plasmarci di fervidi entusiasmi. Voglio un silenzio, senza pretese, che non cerchi altro che silenzio. E sappia lasciarsi schiudere nella sorpresa. Nello stupore. Nella meraviglia. Lentamente. Perchè le nuvole sono bellissime quando ricoprono il cielo di lievi screziature che lo sfumano dolcemente e lo precipitano in nuovi colori. Come se stessero là immemori della pioggia che sanno svuotare sul mondo. Tutto questo prima di un tuono improvviso. Silenzio. Sembra quasi una invenzione mentre lo pronunci. Ti fa sentire nuova. Forse lo sei. E adesso taci. Solo per ascoltarti davvero. Perchè ti sei parlata troppo voracemente addosso. E non sai staccarti dalle parole. Ti sembra che non dire sia un precario non esistere e hai un becero bisogno di avere una dimensione tattile e di ricordare agli altri che ci sei. Come se il tuo corpo fosse il promemoria della tua identità. E così non è. Cercare lo scheletro del mostro a cinque teste che ti ha rosicato il cuore. O forse era solo un figlio delle nuvole, nuvola anch'esso. Silenzio. C'è sempre troppo rumore. Donatemi il silenzio. Nel posto dove vanno a finire tutte le parole, dopo aver fatto il loro giro immenso. Non un rumore assordante. Silenzio. La rugiada si è, tuffata lieve e lenta, nella corolla di un fiore. Lo ha rigato. Lo ha dipinto di freschezza. Un fiore in inverno. Aspettava l'aurora. Si parla di empatia. In quella strana esigenza di cercare nuove parole. In fondo le menti sono solcate da tanto tempo dalle stesse parole. Sono là basta raccoglierle e usarle e credere siano nostre. Invece da qualche parte deve esserci un cimitero delle parole. Adiacente alla loro fabbrica. Là tutto torna.
Dimmi che esiste un pozzo dove io possa trovare
un giorno tutto quello che non mi hai mai detto.
E che i tuoi pensieri sono stati nascosti nel tronco di un albero.
Come un tesoro dimenticato.
Mi piace pensare che esistano.
Anche se non le troverò mai.
Nè le cercherò.
Forse.

martedì 29 novembre 2011

Mi sono svegliata e il mondo non aveva smesso di funzionare. Un coltello conficcato nel cuore di una mela. Volevi mostrarmi come fosse facile. E io ho sentito la sua lama affondare nella polpa e la mela divaricarsi in spicchi. Oscillavano. In frammenti di tempo. Intervalli tra un pensiero e l'altro.Dove erano le tue mani? E le mie? Avevo smesso di imbrattare quello che leggevo con la mente. Lo lasciavo scendere dentro di me. Come in un imbuto. E restava sempre poco. Alla fine pesiamo sempre tutto. Non siamo capaci di scindere il bene dal pco e dal troppo. Mi è bastato chiudere gli occhi e pensare a quanta luce fosse necessaria. Era troppa. Una orchidea mi ha sorriso. L'ho -intra-vista tra le ciglia. Come se fosse stata in una gabbia. E i miei occhi una finestra. Poi è scomparsa, divorata dal ritorno, o forse da un pensiero. Mentre spingevo gli occhi nel buio. In un buio liquido, dove prima o poi un pesce mi salverà. "Salvami pesce, io sono una mollica. Una piccola e povera mollica tra le altre. Una mollica supplice". Mi sono svegliata e nessuna aveva cambiato il posto delle cose. Il cielo era nel ripiano superiore. L'inferno nello scantinato. E sotto le mie unghie. Detriti di vita. Ho stretto e incontrato un fiume di mani. Erano infinite. Ne cerco le tracce sul mio palmo asciutto e liscio. Solo le mie linee si fanno strada sulla mia pelle. La rete del ragno, chiamata destino. Il nome inverso della volontà. Mi perdo in una nudità sincera e spietata. Il mondo non si è spento. Gli uccelli cinguettano. Forse nessuno li ha avvisati. L'ho detto al mio gatto e mi ha sorriso compiaciuto, sospeso sui suoi baffi. E io sui miei tacchi.
Non avevo mai pensato a quanto fosse immobile la gioia.
Il corpo sa sempre già tutto.
Ma io non so ascoltarlo.
Sono pensieri che si agitano dentro la carne.
Sono il fodero di carne che avvolge i miei pensieri.
E poi divento un nulla pulsante.
Quasi una cartolina mai spedita.
Da qualche parte stai guardando altri occhi.
Forse ci scoperai dentro un pò di vita.
Non sono gelosa di quello.
Ma delle tue ore.
Come quando ti osservo mentre ti perdi in altri pensieri.
Ci giochi e li ammicchi.
E io urto contro il bordo della fotografia.
Adesso ho un livido che mi ricorda che non avevo posto.

sabato 29 ottobre 2011

*

Rivendico. Oggi, rivendico. Rivendico la femmina nascosta nei miei polsi, sotto sette bracciali. Quattro fili di erba. Ed una corda. Bianca come la neve. Stringe. Ma urlo e poi mi piego in un sussurro e dopo in un sibilo. Strano serpente con le ali. Ha perso il sangue. Sputa nuvole e si ripete in rivoli e polvere. Per scomporre le sillabe e per sentire la testa piena e piena di vuoto. Comete come biglie, senza direzione. Coesistono la voglia di picchiare forte e di abbracciare. Pelle chiama pelle. E' semplice. E ci si scivola addosso, fino ad inciamparsi dentro. Per riaffiorare subito. Pelle chiede pelle. Altra pelle. Rivendico la più sfacciata leggerezza. Farfalle sulle dita. Come le stelle che rivendicano la loro luce saggia. Pulsa nell'universo, prima di coricarsi sul cuscino e di macchiare di rimmel le lenzuola. E di macchiarne la purezza e l'innocenza, tutta quella che vi palpita dentro. Galleggiano stelle nel mio cielo segreto. Io rivendico la mia fetta di oscurità perversa ed avida. Il mio buio saccente e senza regole. Si strotola come un prato. Lo strappo e lo ricucio e mi distruggo. Fino ad incollarmi lucciole sulla carne. Ieri ero lacrime e adesso puro nettare. Erano fiumi segreti, in cui la dolcezza prendeva la forma della malinconia e della delusione. Del pentimento e della pretesa. Adesso posso essere veleno, pericolosa come una lama affamata. Disegno sul vetro con la mia bocca rossa, sporca di melograno e di menzogne. Sono una bambola di pezza con un cuore di carne infilzato e labbra vermiglio disegnato. Ed in quel cuore c'è tutto, mani, sguardi, morsi e fianchi. Come se fosse una casa. Il cuore è una casa da riempire. Ed ora dentro c'è una folla che urla. Se pensassi a Dio adesso, penserei ad una frusta e a tanto vento.
Ognuno ha i suoi oggetti sacri e li usa per farsi altare.
O per pregare il suo dio.
Io ho tre granelli di sabbia ed una pagina bianca e ruvida.
Come una tela.
Molte parole e nessuna storia.
Io non so più pregare.
Io non sono fragile.
No, io non esisto.
Destino è una parola come tante.

giovedì 20 ottobre 2011

*

Se chiudo gli occhi il mondo si riveste di colori. E' più facile, perchè io mi vesto di buio. Di una sospensione tenue e sfumata, in cui quasi si può galleggiare in un tempo scandito solo dal proprio respiro. Il corpo insegue il cuore. E il cuore si fa sangue. Smette di rinnegarsi, come avevano preteso. E' come perdersi. E le cose più importanti richiedono proprio la causalità e lo schiudersi del perdersi. Del sapersi prendere tutto il vuoto che capita e che si spalanca davanti a noi, fino al saper vagare, vuoti ma sazi. In una corrente morbida, fatto di un calore lento, quasi essenziale. Le cose essenziali sono imprevedibili, radici che come legacci di uniscono al mondo. Il mio palloncino è bianco. Più della nostalgia. Mentre le nuvole decollano sprezzanti di ogni pericolo. C'è del rosso feroce nel mio respiro. Stinge il bianco. E' come ritrovarsi in un posto lontano ma vicinissimo.  Di una dolcezza essenziale, quasi tenera, ma forte. Le nostre palpebre grondano di vita intrappolata in ricordi, in immagini deformate dalla mente e dal cuore. Di suoni che ti avvicinano a ciò che è stato, ieri o tante lune fa. O forse non è mai successo. La memoria del cuore non ha regole. Si mangia i pezzi, senza aver fame. Qualcuno la chiama tentativo. Una coperta che si agita tra presente e passato. Forse è la mente che ci consente di essere più forti del tempo, e della nostra pelle. Di scavalcarlo, come un muro sporco. Nel gioco crudele delle aspettative, una volta infilata sotto le palpebre vorresti ritrovarci un indaco screziato di arancio. Quello che vorrei è smettere di volere ed aspettare. Frapporre tra me e il mio divenire una moderata lentezza, una discreta e sinuosa capacità di ondeggiare, capace di parare ogni colpo, di attenuare le ferite e di riavvolgere l'impazienza e l'insoddisfazione su un rocchetto, filo su filo. Non so ricamare e disegno con le dita, tra corde e nastri, per dare forme precarie, belle perchè sono destinate a cambiare, come nubi che strisciano su un tavolo fatto di cielo. E inciampo, nella casualità delle ombre, come in un teatro cinese, nel tuo pensiero, lontano, forse che scorre in un altro fiume. Tanti mondi e tante vite fa. Un pizzico al cuore ed in un istante mi sei nella gola a battermi forte come un tamburo. Chissà dove sei? Quale aria respiri? Se ti è mai capitato di pensarmi. Sembrava difficile dimenticarti, e a quanto pare sei stato più forte. Oltre tutto il rancore, ancora riemergi e a volte il tuo pensiero ha la forma della paura, di una freccia, di un lampo. Altre volte ricordo a quando mi hai insegnato ad ascoltare il mare e la sua voce. Mi addormentavo scavalcando la lontananza e ti prendevo la mano, mentre il mare non cessava di accarezzava il nodo che eravamo. Ascoltai il mare anche prima che partissi. Prima di partire per non tornare più. E forse fu amore il non ritornare. Se non come un pensiero, o come un fazzoletto.
Ci sono amori indomiti.
Bucano l'oblio e ti riempiono di una strana nebbia.
Nessuna paura, solo nostalgia.
Velenosa. 
Quanti frammenti di cuore può contenere il cuore di una donna? 

mercoledì 19 ottobre 2011

*

Per tutte le volte che mi sono resa ridicola e la mia gonna è rimasta strappata dentro circuiti di viole e spine. Dentro il suono di un violino. Per quelle volte in cui ho desiderato solo che continuinasse, fino a sentire i graffi alle caviglie. E di resistere. E di lasciarmi scivolare l'aria sul collo. Rossa. La macchia che mi divorava. E all'improvviso mi riempiva la mente. Era rossa. Disperatamente rossa. E io ci fremevo dentro. Come quando non sai smettere di tremare. E quella sabbia rossa ti entra. Dentro. A fondo. E tu anneghi dentro la tua carne e sprofondi tra le tue vene, come dentro una voragine. Fino a raggiungere una specie di deserto segreto. In un pugno. Stretto là, dentro quelle dita. Senza essere un segreto. Quella nuvola rossa e densa confonde, smeriglia, dilata. E tu non sai più contare. E non conti neanche più. Ho sognato di contarti sulla bocca. E tu contavi contro la mia. Ma sbagliavamo e ci impigliavamo. E non sapevamo ricominciare. Avevo troppa voglia di baciarti. Ma non riuscivo a smettere di parlarti addosso. Sui denti. Tra le nostre lingue. E tra parlare e vivere sceglievo le parole. E ti mangiavo, parola su parola, respiro dentro respiro. E le mie parole ti scendevano sul collo, mentre mi ansimavi dentro. Come se io fossi stata una caverna. Io non sapevo cosa dirti, solo che ti volevo, ancora e sempre, e sempre di più. Ed era bellissimo. Ed era tristissimo. Non ci raggiungevamo mai. Una pioggia di malinconia feroce. E tutto restava rosso. Senza che quella nebbia si diradasse. Ero io che non c'ero più. E neanche tu.  Solo sabbia rossa, avida e muta, esattamente dove prima era stata quella nube. Quel fuoco e quel gelo. Quell'ardore e quella scintilla, di un viola terribile ed accetante. Contro un muro che adesso ha la tua voce, quella di quando sei dolce e chiudi gli occhi. E mille satelliti fagocitano la realtà. Blu ed inaspettati, come quel bordo di speranza che ti circonda lo sguardo e mi affondava dentro di sè. Quasi mi acquietava. Anche se il rosso tornava sempre.E ancora torna.  All'improvviso, senza preavviso, e devasta. Ti fa desiderare solo di fuggire e di essere diversa. Oltre tutte le promesse tradite, oltre tutti i sogni infranti, oltre l'inutilità del dolore e del male. Lontano da quella polvere. Ancora a contarti addosso. Ed ad intrappolarti tra i miei brividi. Nella rete del mio ragno.  
Io non gioco.
Mi limito a sognare.
E forse i sogni sono solo un tenero gioco dell'anima.
Macchiati da perversa innocenza.
E poi non so tornare indietro, anche se mi volto.

mercoledì 12 ottobre 2011

E' bello qui. Fa poco caldo e neanche freddo. Dietro la tenda le ombre diventano fiabe. E' davvero bello. Me lo sussurro. E mi fa compagnia. Come una voce di un io narrante timido e goffo. All'improvviso ha voglia di impigliarsi in un urlo a squarciagola. Qualcuno potrebbe rilevarne la inadeguatezza ma l'io si sorride. E si rigira tra le sue braccia morbide e bianche. In fondo nelle fiabe così sono i risvegli. La tenda mi lambisce la carne. Come un'onda sulla riva o forse come un'alba che scansa le nuvole. E' quello che ci inebria giocarci dentro, come dentro una tana. Ma mi ripeto che io sono di carne e penso di carne, sogno di carne e di carne vivo. Si imbratta di concretezza la mente e neanche se ne accorge. Anche i colori sono un prestito del mondo. Tutti dentro là. Al confine della realtà.

domenica 9 ottobre 2011

Ho smesso di raccogliere i pezzi. Di spezzare foglie. Per lasciare una scia. "Cercami". E' il gioco in cui mi perdo. E ho smesso di ascoltare. Voci come se fossero tulipani cigolanti. Voci di lama. E di aghi. Urla affamate di neve. Ho smesso. Di ricopiare impronte. Di levigarle. Di modellarle. Di dargli la forma del tutto. E del giusto. Il giusto è deforme. E informe. Spinto dai battiti. E spesso si scioglie davanti al fuoco. Ho smesso. Di mozzare pezzi ad albe. Di soffocare i suoi tremiti. Di amputare la rugiada dai fiori. E ricomporre. E conservare. Nella guerra degli spigoli. Dove non c'è sangue. Solo silenzio. E punge. Ho smesso. E forse no. Forse è la verità che mi appartiene. E mi solletica le vene. No. Non sto tremando.
Ma non smetto mai di smettere.
Non sento. Al centro di me un'arpa di carne sta rimestando pensieri e desideri e sogni. Una musica imperfetta. E meravigliosamente scomposta. Mi fa credere di essere vita. E mi spinge i battiti nel cuore.
Imperfetto cuore.
E fermo quello che sento, adesso. Adesso è la misura labile e flebile del mio divenire. Gli respiro intorno, come una ladra di aria. Lo fermo tra due dita e poi respiro. Mentre ne sento il contorcesi. E poi ancora, fino a smettere di contare. In quei numeri c'è un'anima, un'anima che all'improvviso sfuma. Ma non si perde. Niente si perde al mondo. E nulla accade per caso. Mi piace giocare con i battiti. Incolonnarli in percorsi accidentati. Mi sembra di insegnare al mio cuore a battere più forte e senza regola. A mordere il precipizio. E a lasciarlo andare lungo la scarpata. Come se fosse un sasso che rischia di scheggiarsi, di perdere pezzi, senza mai cessare di esistere. Il cuore è l'unica realtà che continua ad esistere anche quando lo rinneghiamo. Un fiore tra i capelli, sull'orecchio. Ascolto il mondo dai suoi petali. Ed è così che lo tocco. Come se fossero le mie dita. E le dita urlano, senza parole. Sognano di  andare a fondo come pesci. Quel sasso, quel che resta, stretto nelle mani. Per non colare a picco. Per non andare a fondo. Come se fosse una speranza. Cerco i segni, le tracce, i graffi del mondo, sulla sua superficie. Quasi verità e menzogna. E la tua verità la senti? Quanti sassi ha dovuto ingoiare?  Non so lasciarlo andare e lo tengo abbracciato alle mie dita, mentre mi scavo un pò di piacere addosso. A volte lo poggio sul tavolo vicino al fiore, come per scorgerne le affinità, perchè se le differenza mi incantano, nelle affinità scorre un piccolo barlume di forza, già di quella speranza che modella il futuro. Siamo divinità incomplete. E mi stupisco. Anche un fiore sa lasciare tracce, sa graffiare, sa ferire. Ognuno di noi ha un fiore ed un sasso dentro. Ed è difficile che si incontrino.Ma la magia è nella dolcezza più rude e nuda, quasi sincera, tanto da sembrare effimera. Senza nome, boccheggia a pancia all'aria.
Eppure avrei voluto amarti, sorridendo.
E riempiendoti di quella dolcezza.
A mani piene.
Fino a soffocarti.
Non fui capace di imparare la leggerezza.
Volevo lasciare traccia, forse graffio, o solo un morso, e dimenticai il resto.
Era nel muto sentire di quel sasso immemore.
E nell'oscillare di quel fiore.
Invece colai a picco dentro il mio sangue.
Senza toccarti gli occhi, con i miei baci.
Colai tra parole e fruscii, senza respirarti forte e vicino.
Quella leggerezza era fatta di una forza silenziosa che si chiama fiducia, figlia dell'amore e della pazienza. Pazienza, tempo e verità, ecco cosa ci voleva, per non lasciare andare quelle ali alla deriva.
Figlie rinnegate della loro eco.
Sporcano il cielo.
Altro non sanno fare.
Tu lo sai. E io non devo dirtelo. Sono un'animale. Ho mille bocche. O forse nessuna. Tane di denti e di parole. Di una fame indegna. Come se fosse amore. Ma è solo sangue. E percepisco ogni variazione. Ogni fremito. Ogni onda. E la sua assenza. Anche se non voglio. Io non la vorrei questa pelle così avida. Questa valle di nuvole impure e sperse. Mi oscurano i sensi. Come se il cuore lasciasse una patina là dove passa. E di scampoli di sensi e di buio io vivo e mi muovo. Dell'alternanza tra la luci e le sue crepe. E le piccole scosse che provocano. Non al passaggio ma nell'assenza. Nel muro della mia anima. Un velo fragile. La mia anima di animale. Un'animale che ha fame e chiede e non sa farlo e striscia la sua carne sulla terra. Con te non voglio nascondermi. Non voglio farmi sole di un cielo che non ha colore. Nè può averlo. Sono questo istinto che mi spinge a imbattermi in foreste e campi e ingorghi di ombre. Come nella mia mente. Tra alberi che lottano di continuo con un vento immobile. E poi anche nella tua. Dove sono ramo e foglia e polvere. E farmi pasto e farmi bocca che contamina quel pasto. E poi affondare tutta la voglia secreta dalla mente sul tuo banchetto. Un animale non conosce stagioni. Le intuisce. Le sente perchè sente solo che deve continuare a vivere. Annusa i suoi giorni, pregni di istinto,senza sapere cosa è il tempo. Sa solo che i graffi devono guarire per continuare a vivere. A volte la conoscenza è solo la forza della vita.
Un animale ferito che muore e si lascia morire.
Esattamente ogni volta che la mente lo decide.
E il cuore ne raccoglie i segni.
Come dopo una battaglia.
Perchè sa che dopo torna.
Si muore per rinascere, sempre.
Forse era ieri Natale. E io il mio regalo l'ho avuto. Al centro di una terra di nessuno. Mi sono sentita infilzata dalla luce della luna. Era là sopra nel suo candido silenzio. Dietro una tenda di nuvole. E non mentiva. E io al centro di quella terra sconosciuta avvolta in una solitudine leggera. Ho sollevato gli occhi nel vento e c'era tutto. Io, il vento e lei. Una paura lieve dell'ignoto. Del tutto e niente, che poi è roba di istanti. E il vento, stranamente caldo, come se fosse l'alito sonnolente della terra, mescolava al cielo l'odore crudo della terra. E' strano come la realtà ti doni incantevole astrattezza. Perchè reale era il cuore che mi batteva. Insieme all'abbaiare lontano di un cane.
Sì era ieri Natale.
E il caso il suo teatro.
E' che in alcuni momenti tutto il resto non conta.
Conta solo quello che sei.
E che un pò ti piaccia.
C'era tutto. In quel momento. C'era la terra che dormiva e con lei il seme e le sue promesse e c'era l'alba che sarebbe arrivata. E tutte quelle che si erano spente. E un bacio scambiato tanto tempo fa. Con le sue bocche aride ed avide. E le radici dell'albero e le sue fronde. E la sua forza nascosta nella corteccia. Come se fossero desideri segreti.
E c'era anche la voce del vento.
Oggi non so se la luna c'è. O quante ve ne siano. Se la ha rubata un corvo vorace o si è incastrato tra spigoli di cielo. Non so se brilla o si è inabissata in qualche galassia sconosciuta. Io so che c'era. E tutto il resto davvero non conta.

sabato 8 ottobre 2011

E innocente il gioco.
Quasi pulsa.
Batte nelle vene.
E affonda come un sasso nello stagno.
E sei l'onda.
Tu lo respiri.
E non vuoi.
Spogliami.
Spogliami la carne.
E il cuore.
E poi sfondalo.
Dolcemente.
Spogliami e vestimi di luna.
Quando ti penso tremo.
Tremare è il gioco più innocente.
E cerchi un rifugio.
Quando una donna si sente una stella.
L'incastro dei brividi nella mente.
Come se fosse cielo.
E tremarti addosso.
Non per riscaldarmi.
Ma per resistere.
L'amore è il filo che si interseca con i nostri giorni.
E ci smebra la vita in segmenti irregolari.
Complica e devia.
E perfidamente lega.
Come in una foresta.
In un non luogo.
E desiderare è un pò essere immortali.
Divinamente umani.
Dei di carne,
con il cuore nel petto,
che tentano di vendicarsi della morte.
Non voglio essere amata, solo mangiata.
E poi nutrita.
Non voglio amore.
Ho solo fame.
Poi cambiano le cose. Cambiano perchè il mondo ha una sua spinta che le determina. Forse ignorandole. Una specie di effetto secondario del gran respiro. Si irridia in divenire e cambiamenti. Raggi sghembi di una bicicletta abbandonanta. Ha nelle sue ruote percorsi mai esplorati. Quasi frammenti di strada. E di sogni. E cambiano, per ritornare indietro, ma non allo stesso punto. Come se dentro ci fosse un elastico. Una specie di anima. O solo una forza che non ha nome. Perchè sono incapaci di imparare la traiettoria. Ed il suo inverso. E per un urto al contrario ritornano e ci vanno vicino. Ma molto vicino, sfiorando il punto o giocando con le sue traiettorie immemori e sbadate. E' quasi invisibile il segreto del mondo. E spesso non è essenziale come si crede. Come abbiamo creduto da sempre. O forse da quando abbiamo iniziato a credere. Abbiamo imparato. E io ci ho provato. Ho chiuso gli occhi e ho cercato di guardare tutto quello che potevo. Ho aperto la scatola dei sensi e mi sono adagiata sul suo coperchio. E intanto scattavo mille immagini. Per non perdermi nulla di quello che accadeva fuori. E forse quel fuori era il dentro di altro. Non ero in quei click alla rinfusa e figli del caso, ero nella spinta del mio dito e nel suo protendersi a mischiare la luce con la forma e con il ricordo. E questo mi induceva ad immagazzinare dentro sensazioni, senza registrarle, con una gran fame di vita. E l'emozione di esserci stata. E di aver condiviso lo spazio con infinite vite prima. Con il cruccio di non saper descrivere ma solo raccontarle alla rinfusa, senza ordine. Forse perchè nessuno mi chiede, poi. Quando ho aperto gli occhi ho compreso che ero riuscita a sentire la voce di una pietra. E tentare di toccarla non era scoprirla. Ma solo riconoscerla. Perchè avevo soffiato sopra i suoi molteplici strati di coscienza sedimentati. Ed in realtà le cose cambiamo, ma solo poco. Siamo noi che gli prestiamo l'anima e dimentichiamo di chiederla indietro. E continuiamo a guardarci, come occhi senza pupille. Con l'anima altrove. Come edera su un muro sconosciuto. Con la voglia di rapire la luce. Come se l'avessimo scoperta in quell'istante. Ma volessimo condividerla. Forse perchè è così che resta un pò nostra per sempre.

A questi occhi manca la realtà.
E quello che ho dentro è il suo involucro.
Ed è per quello che ho paura di guardare. 
 Mi piace pensare che in un punto, forse una linea,
impercettibile, ma non invisibile, l'anima si sovrapponga al corpo.
Cuore di cane all'improvviso sanguina. Mentre sta ancora cercando una ferita. Ha briciole di sogni nella sua tana. Scalzi come i suoi piedi e nudi come i suoi polsi. E slingua la vita come se fosse acqua. Schiude gli occhi e con il vento sulle ciglia. E di una sete sottile segue la scia. Lungo una strada che è sempre troppo in  salita. Per la sua caviglia fragile ed i suoi tacchi alti. Anche se inciampare è spezzettare il mondo in segmenti. Qualcuno li chiama errori. Altri tentativi. Molti non si accorgono. E in quei pezzetti si annida il senso di una continuità infinita. Nel non giustapporsi al divenire ruvido ed incalzante. La normalità diventa accettazione solo quando si coltiva dentro un incauto brandello di follia. E' sulla pelle che l'anima lascia i segni. Fino a farsi chiamare tempo. Ma mai istante. Quello è veleno lento. Ed è solo per la mente. E mentre sorseggia delirio ancora trema e abbaia contro la luna perchè non può morderla. E' forse sa che nessuno gli insegnerà mai a baciarla. Ma non che sui suoi sogni c'è la coperta madida di quella luce che gli impedisce di gelare in quelle notti.
In fondo noi siamo anche in tutto quello che non saremo mai.
Ancora sette sorsi e poi arriverò al fondo. Come un granello veloce nella clessidra. "Bevi con me, luna bastarda e distratta".Ho solo voglia di vederti roteare, fino a colare a picco dentro le mie iridi.
Quando ti morderò lo farò piano e tu non sentirai dolore.
E imparerai che c'è uno splendore inesplorato al confine tra il dolore ed il piacere.
E nella doccia ho chiuso per bene la tenda e ho atteso l'assassino ed il suo pugnale. Mi sono riempita di fruscii, dentro e fuori e la musica mi scivolava addosso insieme al sapone, alla paura ed alla attesa.
Non è arrivato.
Quella che abbracciava era la sua piccola Sara; e non smetteva. Di avvolgere tutti quei sogni, spersi e vaganti come un sottobosco, dimenticato ed ignaro, e lo stringeva, con il suo alito ed il suo calore, fino ad impedirsi di respirare, o solo di pensare. Le sue dita si mescolavano alle more ed ai rovi, in un provvido rosso, e si lasciava scuotere dai suoi brividi, di quella piccola bimba, come se fossero i suoi. E forse era così. Ma non lasciava la presa, per non perdere il coraggio, o solo un pochetto di equilibrio. E quei brividi, densi di passato e di sogni e di zucchero filato, le mordevano i polsi, fino al gomito, quasi a ridosso con il passato. Era quello il confine in cui il tempo andato ed il presente si strofinavano addosso. Tremava insieme a lei, senza negarle nulla, là dove il bene ed il male sono vicinissimi. In un abbraccio della piccola parte di sè che non riesce ad andare via e noi non riusciamo a far scivolare sotto la porta di un spazio, che ci ostiniamo a chiamare ieri - quasi come un foglio scritto fitto fitto e chiosato sui bordi, come le ali di cera che si sono fuse nel sole, o solo come le virgole di cui ci siamo ingozzati, per impedirci di mettere un punto. Senza fine era il suo sottotitolo preferito e se lo lasciava sciogliere sotto il palato. E per mancanza ci scriviamo addosso, riabbracciandoci contro noi stessi ,di continuo, lasciandoci sfiniti, come dopo una corsa oltre il prato, solo per poi raccoglierci e ritrovarci. Una specie di rugiada inversa, un sangue senza carne, un delizioso collante tra anima e corpo; oltre quel prato, oltre questa carne, i gigli urlano e si schiudono, ad ogni brivido di quel piccolo corpo, fatto di pelle levigata dal sole e di sogni, di pupille strette come barche. Sara le alitava sul collo e le lasciava rotolare una collana di perle invisibili e di pietre. Solo perchè era quello il suo modo strambo di amare. Di raccontarle le fiabe. Quale favola è più dolce dell'amore? L'unica in cui possiamo incastrarci fino in fondo, imbrattandola del nostro sangue. Forse era così che ad ogni alba scivolava dal soffitto e diveniva aria. Sara era fatta di nuvole. Per quel preciso motivo. Un motivo grondante di vento e voglia.
Non chiamiamola vita, solo perchè è un segreto. 
Era assolutamente infedele, più di una gatta, quando non amava.
Ma invece, sì.

Dove si annida la sopravvivenza? Ho germi inaspettati e nascosti di nostalgia per la gioia. Sicari che mi assalgono all'improvviso. E all'improvviso la voglia di gioire diventa. Indefinita è questa voglia di sorridere. A ridosso del vento. Fino a sentirmene fare una collana. E contarne le perle. O forse erano lacrime? O rugiada? Come un germoglio e come un bocciolo mi spunta sui polsi. Li accarezza e li stringe. Più tenace dell'edera si espande fino al cuore. Fino a nasconderlo in un bosco. O solo a farlo seme sperduto. Inaccessibile. E sono il muro di questa stanza. In cui infilare le dita e scavare. Invisibile è il confine. E su di me scivolano tele. Immagini e colori si sfaldano in memoria. E poi in oblio. E' paura pura quella che a volte mi trema dentro. Lungo un sentiero. Un serpente che striscia. E ingoia segreti inconfessabili. Ed inconfessati. E trama dentro. Con gli occhi di una stella. Dietro ad una finestra fatta di notte. In questa stanza di respiro ed incomprensione ci sono io. E mi assedio.  In questa scatola mi vivo dentro. Fino all'estremità. E non sono queste dita che fanno carezze. O questo sangue che mi riga la gola. E neppure nelle parole che solcano l'aria.
La mia estremità è nel protendersi del silenzio.
Come una lama. O una corda. La sento dietro i gomiti. Nei polsi che si baciano.
Sono prigioniera della mia stanza.
Nutrimi e prenditi cura di me.
Ma non sciogliere la mia catena.
Anello dentro anello.
Promessa contro promessa.
E se tutto fosse mescolato,
non perderebbe il suo posto.
Neanche le parole.